lunedì 23 maggio 2011

Fukushima e la mano di Dio

All’indomani del terremoto in Giappone, Roberto de Mattei, vicepresidente del CNR, è stato intervistato dall’emittente Radio Maria, facendo proprie alcune riflessioni di mons.Mazzella, arcivescovo di Rossano dal 1898 al 1917, a proposito del catastrofico terremoto di Messina del 1908. Come normalmente accade, la sintesi giornalistica ha concentrato un discorso più ampio in un asserto perentorio: “Il terremoto in Giappone: un castigo divino”. Probabilmente è stata questa formulazione, più che il tenore complessivo del discorso (quanti lo avranno ascoltato o letto per intero?), a irritare molti. Dunque vale la pena, prima di qualsiasi analisi o commento, riportare le affermazioni originali di Mazzella/De Mattei:

…in primo luogo le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio, che ci scuote e ci richiama col pensiero ai nostri grandi destini, al fine ultimo della nostra vita, che è immortali (sic). Infatti, se la Terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi, la Terra eserciterebbe su di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che essa è un luogo di esilio, e dimenticheremmo troppo facilmente che noi siamo cittadini del cielo."
Ma in secondo luogo, osserva l’arcivescovo di Rossano Calabro (scil. Mons. Mazzella), le catastrofi sono talora esigenza della giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi. Infatti, alla colpa del peccato originale che tocca tutta l’umanità, si aggiungono nella nostra vita le nostre colpe personali: nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi innocente; e le nostre colpe possono essere personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo, ma mentre Dio premia e castiga i singoli nell’eternità, è sulla Terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno.
Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina ieri, o quello del Giappone oggi, sia stato un castigo di Dio, sicuramente è stata una catastrofe. E, scrive Mons. Mazzella, la catastrofe è un fenomeno naturale che Dio ha potuto introdurre nel suo piano di creazione per molteplici fini degni della sua sapienza e bontà. Ha potuto farlo per raggiungere un fine della stessa natura ottenendo per mezzo di una catastrofe un bene  fisico più generale, come quando con una tempesta di venti che produce danni si purifica l’aria. Ha potuto farlo per un fine di ordine morale, come per esempio acuire il genio dell’uomo, eccitarlo a studiare la natura per difendersi dalla sua potenza distruggitrice, e così determinare un progresso della scienza.
Ha potuto farlo per uno dei fini per i quali la fede ci dice che talora l’ha fatto, come sarebbe quello di infliggere ad una città un esemplare castigo. Ha potuto farlo per un fine a noi ignoto. Per quale fine Dio ha operato in un caso speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe dirlo? È possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi al nostro scopo basta la sicurezza che le catastrofi possono essere, e talora sono, esigenza della giustizia di Dio.
De Mattei ha pure rincarato la dose, assimilando la distruzione di Varsavia nel secondo conflitto mondiale a quella di Sodoma e Gomorra:
«Il signore annunciò a santa Faustina Kowalska il castigo di una città, Varsavia, per i peccati che in essa si commettevano, soprattutto l’aborto, che è l’uccisione inerme nel grembo della madre.”

Alla pratica dell’aborto, de Mattei ha incluso, per motivare la punizione divina di Varsavia, l’omosessualità degli “invertiti” che vi abitavano, proprio come nel caso delle due città bibliche.
De Mattei, oltre che vicepresidente del CNR, è docente di Storia moderna e contemporanea presso l’Università Europea di Roma, nonché direttore della rivista “Radici cristiane” e – come si può arguire - un convinto cattolico. Niente di strano allora che possa sostenere l’idea dell’immanenza di Dio nel mondo e persino di un Dio che interviene direttamente nella storia. Va peraltro considerato che, mentre nel 2009 de Mattei aveva promosso a Roma un convegno incentrato sulla contestazione dell’evoluzionismo darwiniano, da cui il CNR prese le distanze, questa volta ha espresso le sue posizioni nel contesto ben diverso di una radio religiosa.
Allora, per lo meno in linea di principio, quando de Mattei parla in qualità di cattolico in una emittente cattolica, non può e non deve essere attaccato in base all’argomento che è vicepresidente del CNR. Altrimenti ne deriverebbe la conseguenza assurda che egli, un attimo prima di assumere questa carica e un attimo dopo averla deposta, diventa automaticamente legittimato a farlo, come se i diritti inalienabili valessero a singhiozzo! La vera discriminante è quindi la circostanza: una conferenza stampa, una partita di golf, l’inaugurazione di un oratorio… Eppure mi resta il dubbio che, in fondo in fondo, la causa dello scandalo sia l’opinione in sé, e non il fatto che la esprima un alto rappresentante del Consiglio Nazionale per la Ricerca. La polemica mi pare anzi confermare come l’intolleranza del pensiero dominante verso le altre forme di pensiero non muoia mai, manifesta o strisciante che sia. E non vale lamentarsi delle ingerenze della Chiesa in questioni su cui il nostro Stato laico dovrebbe scegliere in piena autonomia: se ciò accade è perché la politica lo permette, per interesse, per paura, per tornaconto. La situazione non giustifica l’intolleranza tout court verso argomentazioni di ispirazione religiosa, tanto più che oggi, di fatto, predominano una mentalità e costumi largamente laicizzati e ‘scientificizzati’. È per altro una ‘scientificizzazione’ spesso grossolana, persino ignorante, condizionata da un progresso delle conoscenze che procede in modo disorganico, per addizioni indipendenti. L'integrazione delle diverse sfere culturali non solo è scansata per ottusità o pigrizia mentale, ma è sovente guardata con sospetto, ed evitata come indebita invasione di campi. Vi si preferisce la via facile dell’apartheid: rigidissimo tra scienza e religione, più sfumato tra scienza e filosofia e tra filosofia e religione, una specie di spartizione delle aree di influenza da guerra fredda, insomma, ma giocata sull’educazione dei popoli. È ciò che di più lontano vi è dall’umanesimo e purtroppo, la modalità con cui oggi le conoscenze vengono diffuse e recepite impedisce di fatto la realizzazione su larga scala di un neoumanesimo.
Questa inconciliabilità tra sfere è illustrata bene da un commento su Isaac Newton del professore di logica Piergiorgio Odifreddi, noto opinionista televisivo: “Chissà quante altre scoperte scientifiche avrebbe compiuto Newton se non avesse dedicato tanto tempo a cercare segreti mistici nella Bibbia e a studiare la kabbalah!”
È una domanda retorica di stampo anti-umanistico, tipicamente dogmatica, a cui se ne dovrebbe contrapporre un’altra: “Chissà se Newton avrebbe fatto tutte quelle scoperte scientifiche se non si fosse dedicato anche alla Bibbia e alla kabbalah?” Non è una semplice provocazione: le scoperte scientifiche infatti non seguono quasi mai un procedimento lineare e geometrico, tendono invece a realizzarsi per serendipità, con vere e proprie scommesse, intuizioni inconsulte, potremmo dire divinazioni di una legge della natura (cfr. U. Eco, L'abduzione in Uqbar, in Sugli specchi e altri saggi, ove si fa l’esempio delle leggi di Keplero).

E veniamo ora a questo scontro frontale tra le due sfere in massima opposizione: religione e scienza, de Mattei da un a parte e i difensori del buon nome del CNR dall’altra: c’è la mano di Dio dietro il terremoto e lo tsunami in Giappone?
Se ora, resistendo alla tentazione di respingere in blocco questa tesi di sapore clerical-millenaristico, rileggiamo quanto è stato affermato da Mazzella/de Mattei in modo più speculativo, ci accorgiamo di una cosa: non si sostiene che il terremoto è innaturale, cioè che è il risultato di una violazione delle leggi note della fisica (come potrebbe essere invece l’immagine di Cristo impressa sulla Sindone), ma che esso costituisce una punizione divina. Dio manifesta il suo disappunto agendo sul mondo, ma rispettando le regole con cui il mondo funziona. La volontà di Dio è quindi la causa prima, remota, impercettibile e trascendente, mentre la causa prossima - il meccanismo che attua il segno divino - è interamente compresa entro le leggi naturali. Stringendo stringendo, il metafisico imprime una direzione al fisico. E già sento Karl Popper affermare che proprio perché si tratta di ipotesi metafisica, e quindi non falsificabile, non ha nulla di scientifico; che - non essendo la metafisica scienza né gli enti della metafisica oggetto di scienza - questa non è deputata a verificare per il terremoto giapponese un nesso del genere. E allora… e allora a che serve stare a discutere?
Già, religione e scienza sono sfere troppo distanti, incomunicabili. Ecco perché è il caso di abbandonare, almeno per il momento, l’interpretazione religiosa. Certo ci sono a disposizione dei buoni argomenti per criticarla, dal suo interno e anche dall’esterno, e non già di tipo scientifico (ricadrei nello stesso impasse), bensì etico-filosofici. Ma per adesso, stabiliamo con de Mattei una tregua e anzi, chiediamogli in prestito il succo della sua tesi. Per farne cosa? Per de-metafisicizzarlo, per compiere una sorta di virtuoso riciclaggio di denaro sporco, per vedere se, in una diversa prospettiva abbiamo qualche chance in più di dialogare con la scienza.
In definitiva, che cosa distingue – nell’idea di de Mattei – un terremoto qualsiasi da un cataclisma voluto da Dio? Non la loro meccanica che, abbiamo visto, è in entrambi parimenti naturale. A distinguerli è la presenza, nel terremoto ‘divino’, di un fine, di un intento. Ora, vedere intenzionalità in un fenomeno naturale significa attivare un’interpretazione. Sia chiaro che la scienza fa esattamente lo stesso: quando indaga i fenomeni, tenta in primo luogo di interpretarli, poi cerca attraverso metodi di verifica di confermare l’ipotesi interpretativa. L’uomo interpreta gli eventi della natura da migliaia di anni: chi attribuiva il fulmine all’ira divina compiva un atto interpretativo esattamente come chi per la prima volta propose di spiegarlo con lo sfregamento di nubi caricate elettricamente.

Siamo a questo punto nelle condizioni di scremare gli oppositori di de Mattei in due gruppi: gli ultrà e i moderati. Gli ultrà non concepiranno nemmeno l’idea che un terremoto possa essere guidato da un’intenzione. Davanti a loro, quindi, noi deponiamo le armi. I moderati, invece, ammetteranno questa possibilità ma pretenderanno in cambio dei candidati più credibili di Dio. È a loro che ci rivolgiamo adesso, proponendogliene giusto un paio, via via più più smarcati dal trascendente.
Il primo è l’anima del mondo. Facciamo qui riferimento soprattutto al pensiero di Schelling, il quale individua nella Natura una forza unitaria, una forma latente di spirito (una coscienza ‘addormentata’) che scorre invisibilmente nelle cose. In questo senso, fenomeni e forze come il magnetismo, la luce, l’elettricità, i processi biologici - non determinabili attraverso criteri puramente matematici e quantitativi - sono manifestazioni di una coscienza primitiva che guida il mondo, gli trasmette tensione, gli dà una direzione. La natura è uno spirito pietrificato, una intelligenza primordiale, non così consapevole di sé da dire a se stessa “Io sono”, ma abbastanza per imprimere alle varie componenti del mondo movimento e direzione (magnetismo, luce, processi biologici). Il regno degli organismi viventi, in particolare, è il campo d’azione di forze quali sensibilità, eccitabilità e capacità riproduttiva. La vita organica è ciò in cui si manifesta più chiaramente il carattere finalistico, intenzionale della natura: l’autoconservazione. L’uomo è al vertice della gerarchia della natura, in quanto il suo spirito è la manifestazione più consapevole, ‘intelligente’ dell’anima del mondo. Per chi non se ne fosse accorto, siamo entrati nella filosofia della natura; non abbiamo abbandonato del tutto il metafisico, ma almeno ci siamo affrancati dell’ingombrante presenza di Dio (a meno, ovviamente, di considerare l’anima del mondo un principio divino). E - cosa non secondaria - concetti come intenzione e fine, che nella formulazione da profeta veterotestamentario di de Mattei fanno venire la scabbia ai laici, qui provocano un po’ meno prurito, innestati come sono nel mondo fisico-organico (istinto di sopravvivenza, istinto alla riproduzione…) .
Il secondo candidato è Gaia, o meglio una versione più spinta della cosiddetta ipotesi Gaia, di cui riporto qui la descrizione offerta da Wikipedia:
L'ipotesi Gaia è una teoria formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 in "Gaia. A New Look at Life on Earth".
Nella sua prima formulazione l'ipotesi Gaia, che altro non è che il nome del pianeta vivente (derivato da quello dell'omonima divinità femminile greca, nota anche col nome di Gea), si basa sull'assunto che gli oceani, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento e all'azione degli organismi viventi, vegetali e animali. Ad esempio la temperatura, lo stato d'ossidazione, l'acidità, la salinità e altri parametri chimico-fisici fondamentali per la presenza della vita sulla terra presentano valori costanti. Questa omeostasi è l'effetto dei processi di feedback attivo svolto in maniera autonoma e inconsapevole dal biota. Inoltre tutte queste variabili non mantengono un equilibrio costante nel tempo ma evolvono in sincronia con il biota. Quindi i fenomeni evoluzionistici non riguardano solo gli organismi o l'ambiente naturale, ma l'intera Gaia.
Il sistema Gaia, che non è identificabile né con il termine biosfera, né con biota, che sono solo due elementi che la compongono […]Un fattore inquinante dell'intera Gaia sono certamente le attività e l'ambiente costruito dall'uomo, che anche se non facente parte del sistema, interagisce fortemente con esso modificando i fattori limitanti (temperatura, composti chimici ecc.).

Si potrebbe formulare una versione più spinta della teoria Gaia, attribuendo al pianeta vivente un carattere cosciente: non solo Gaia preserva in modo consapevole l'omeostasi, ma percepisce chiaramente la presenza dell’uomo e l’insieme delle attività antropiche, considerandole qualcosa di estraneo, di artificiale, destabilizzante e tanto pericoloso da mettere a repentaglio l’esistenza stessa di Gaia. E così Gaia reagisce aggredendo con tutti i mezzi a sua disposizione l'uomo, con virus, malattie e persino catastrofi climatiche e terremoti. Lo scopo potrebbe essere sia ridurre la numerosità della specie umana, sia dissuaderla da certi comportamenti distruttivi. Chi ritiene di poter bollare con sicurezza questa teoria di fantascientificità o parascientificità dovrebbe soffermarsi a riflettere sul proprio corpo e su come funziona: noi non diamo al nostro organismo ordini coscienti, simili a 'cammina', 'prendi quell'oggetto', quando facciamo intervenire le piastrine per fermare un'emorragia, o reagiamo a un'infezione di cui magari ignoriamo la presenza e via dicendo. Anzi, il nostro corpo, indipendentemente dal nostro “Io” cosciente, si comporta con una intelligenza propria, allo scopo di preservarsi in salute: di nuovo, con intenzione e finalità. E lo fa senza chiamare in causa le funzioni del cervello, possedendo una memoria e delle istruzioni distribuite in ogni suo organo.

Qualcuno storcerà comunque il naso, e sosterrà che sia con l’anima del mondo sia con Gaia non siamo molto lontani dall’ilozoismo di Talete (per cui la materia è intrinsecamente animata) o dalla simpatia universale degli Stoici. Ma è normale che sia così, perché si tratta pur sempre di interpretazioni della realtà, con tutti i loro limiti . Eppure anche la scienza ha dei limiti, suoi costitutivi, per i quali, innanzi a certi dati di fatto – ad esempio che certe particelle elementari ‘danzino’ in un certo modo, che abbiano un senso di rotazione (spin) piuttosto che un altro - non può andare oltre un’ipotesi di interpretazione. Prendiamo un esempio più semplice: la gravitazione universale. La scienza la riconosce e la descrive, ma non è in grado di spiegarla. Non è costitutivamente in grado di motivare il fatto che le masse si attraggono, invece di respingersi o di restare indifferenti l’una all’altra. È appunto quando non è possibile andare oltre delle proposte di interpretazione, che entrano in gioco  filosofia e religione. Il caso più macroscopico è l'esistenza della materia che ha consentito il big bang. Che ci faceva lì? In termini ancora più chiari: la scienza può spiegare solo ciò che è dato, ossia ciò che esiste, ma non è in grado si dire perché esiste qualcosa piuttosto che niente.
Tornando quindi alla gravitazione universale, nessuna proposta di interpretazione sarà mai confortata per via scientifica, per quanto si ammanti di scientificità, né potrà mai pretendere di avere maggior valore, per esempio, di quella di un Giordano Bruno, il quale descrisse il rapporto tra sole e pianeti come una sorta di attrazione amorosa, di desiderio di calore.
Quando pensiamo al dogmatismo, ci viene in mente subito, per abitudine culturale, la Chiesa di Roma, il Credo niceno, la verginità di Maria. È così facile e naturale che non ci poniamo il dubbio che il virus del dogma abbia anche altre forme, conscie e inconscie: ad esempio il dogma che ciò che non è scientifico è perciostesso non-razionale, ossia senza misura, senza regola, caotico; oppure il dogma che ciò che non è scientifico confligge necessariamente con quanto attiene la scienza. In particolare piace, perché rassicurante, ritenere certo e acquisito ciò che non lo è, e irrazionalmente – questa volta davvero irrazionalmente – ci si sente maggiormente legittimati ad applicare questo improvvido passaggio mentale proprio ai contenuti della scienza, e non ci si rende conto di essere laicamente dogmatici, laicamente fideisti. Ancora, si dà per scontato che noi disponiamo dei mezzi più avanzati che la tecnologia è in grado di inventare, mentre per motivi di mercato, la tecnologia si impegna a produrre beni e strumenti meno efficienti di quanto effettivamente potrebbe, affinché entro un tempo ragionevole diventino obsoleti, smettano di funzionare e debbano essere sostituiti. C’è chi si affida al magistero della Chiesa, e chi al magistero dei tecnocrati.
Il più palese e culturalmente rilevante dogma è la comune e tradizionale concezione della realtà come un insieme di due componenti distinte - materia solida e vuoto - regolato da un principio di causalità trascendentale che si innesta nella dimensione del tempo (in soldoni, a una causa segue un effetto). La fisica quantistica rivela invece che, al suo livello più intimo, la materia non corrisponde affatto all’idea che ci eravamo fatti da Aristotele fino al principio del XX secolo, e il nesso di causalità nel tempo non ha validità, perde anzi di significato. Tuttavia, essendo i contenuti della quantistica difficilmente divulgabili (perché non esprimibili attraverso il linguaggio verbale né chiaramente visualizzabili), la nostra civiltà continua ad avere una concezione della realtà ancora di tipo newtoniano, risalente cioè al XVII secolo. È una concezione pratica, ovviamente, perché valida a livello ‘macro’ e quindi funzionale alla vita di tutti i giorni, ma finché non diventiamo consapevoli della sua pura strumentalità e della sua fondamentale non assolutezza, siamo a nostra volta dogmatici.
Con tutto questo discorso non intendiamo favorire una tesi a svantaggio di un'altra, ma salvaguardare la libertà di pensiero contro atteggiamenti intolleranti che si spacciano o si credono manifestazione del libero pensiero, molto spesso condizionati dall'avversione preventiva contro l'aspetto, il carattere, l'estrazione sociale, politica, religiosa di chi la esprime. Se non ci togliamo da davanti questi elementi pregiudiziali, ci neghiamo l'opportunità di trovare nelle opinioni dell'altro quel quid che inaspettatamente condividiamo.
E allora, prima di sobbalzare dalle sedie e scandalizzarci per le dichiarazioni di de Mattei, domandiamoci di nuovo se siamo indignati perché quest’uomo è vicepresidente del CNR, oppure se la sua dichiarazione ci infastidisce a prescindere. Potremmo scoprire che mentre credevamo di combattere il dogmatismo oscurantista di un de Mattei, in realtà gliene stiamo solo contrapponendo un altro, eguale e contrario. Quanto è facile trovare intorno a noi dei de Mattei, e quanto è difficile vedere quello che è dentro di noi.

mercoledì 4 maggio 2011

La tigre e il pipistrello: riflessioni su linguaggio e pensiero nella politica di oggi


 
Noi abbiamo pochi nomi e poche definizioni per una infinità di cose singole. Dunque il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso. Il dramma è che l’uomo parla sempre in generale mentre le cose sono singolari. Il linguaggio nomina appannando l’insopprimibile evidenza dell’individuale esistente.

Umberto Eco, Sull’essere, in Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997, p.13

È possibile ignorare, sottovalutare, dimenticare l’ineluttabile inadeguatezza del linguaggio?
Sì, perché siamo uomini, portati all’errore, e spesso viziati da troppa sicurezza.
Se oggi volessi indignarmi con qualcuno, lo farei con chi usa con dolo il gap segnalato da Umberto Eco, facendo credere che il vuoto dell’universale, lo slogan, corrisponda all’articolata singolarità del reale. Mi riferisco all’attuale neolingua dei media, soprattutto alla sua declinazione politica, che allarga questo gap impoverendo il linguaggio e limitando ulteriormente le possibilità del discorso di avvicinarsi al reale.

Ma attenzione, è facile additare il vizio linguistico in politici, giornalisti, pubblicitari. Difficile ammettere che il diavolo è dentro la cattedrale, che la stessa inclinazione si annida in noi stessi, nell’edicolante sotto casa, nella parrucchiera, nei pendolari compagni di viaggio con cui commentiamo la politica, la cronaca, lo sport.  Se volessimo fare dell’intellettualismo etico, potremmo dire che, almeno, i professionisti della comunicazione sono consapevoli del fenomeno e lo sfruttano, mentre la gente comune no: ne è solo vittima, sia perché subisce il raggiro, sia perché a sua volta lo esercita, questa volta inconsciamente, su se stessa e sugli altri. 
Siamo così sicuri di avere piena padronanza del nostro pensiero e che il linguaggio sia un docile strumento al servizio delle idee?
Prendiamo atto che la realtà è ben diversa: noi pensiamo molte cose attraverso il linguaggio, anzi fondandole sul linguaggio. Fintanto che pensiamo attraverso il linguaggio, i suoi limiti diventano i limiti del pensiero, e se il linguaggio si impoverisce, ciò ha ricadute immediate sul pensiero. È un punto tanto fondamentale che, prima di esporre le mie considerazioni sul linguaggio usato oggi nei media, provo a illustrare il meccanismo  con un esempio semplice e neutro.
Le fiabe utilizzano allo sfinimento pochi schemi narrativi, in particolare lo schema triadico: tre figlie, tre sorelle, tre prove, tre indovinelli, tre desideri ecc. I componenti delle triadi sono caratterizzati da una serrata corrispondenza dei loro elementi, in un rapporto, diciamo, di uno a uno. Per farsene un’idea basta leggersi a caso qualche storia delle Fiabe italiane di Italo Calvino. In questa raccolta, però, c’è una fiaba, La vedova e il brigante, in cui la corrispondenza salta:

La vedova... si finse ammalata e disse al figlio: “Se non ho un po' di latte di leonessa, muoio.”
(Il figlio) andò nel bosco e trovò il leone.
“Compare” gli disse il leone, cosa andate cercando da queste parti?”
“Compare leone,” rispose lui “io sono venuto per un po' di latte della comare leonessa.”
[…]
Il figlio andò per il latte dell'orsa. Quando arrivò dall'orso, l'orso disse: “Compare, cosa sei venuto a fare qui?”
“Compare orso,” rispose lui “sono venuto da voi perché ho la madre malata che vuole un po’ di latte di comare orsa per guarire.”
[...]
Il figlio partì... per cercare il latte della tigre. Quando lo vide arrivare la tigre gli disse: “Compare, cosa siete venuto a fare?”
“Comare tigre, sono venuto perché ho la madre malata e vuole un po’ del vostro latte.”

Che fine ha fatto il maschio della tigre? È sparito per un motivo linguistico: ove in italiano esistono le coppie leone/leonessa e orso/orsa, la tigre ha il solo genere femminile. Questo limite della lingua finisce con l’investire l’universo concettuale della fiaba, da cui il povero maschio della tigre è escluso.
La sua dipartita in una storiella è, in fondo, peccato veniale, ma  assume proporzioni nazional-culturali quando il povero  tigre comincia a essere defenestrato dai programmi televisivi, dalla politica, dai telegiornali e  - come non bastasse - si cerca di surrogarlo con ghepardi, gatti, o peggio ancora liocorni. Eppure in molti casi la soluzione è assolutamente a portata del linguaggio, solo che la rifiutiamo, scegliendo di oltraggiare il pensiero.
Prendiamo il termine antisemitismo: inteso come ostilità verso gli ebrei, può ancora funzionare – per quanto del tutto impreciso – fintanto che lo attribuiamo, ad esempio,  a europei e americani, non certo quando si tratta del sentimento di odio etnico-religioso da parte di popoli di fede islamica, semiti tanto quanto gli ebrei! Non risolve il problema la parola antisionismo: ha un accezione politica che ci allontana dal campo semantico di antisemitismo. Esiste  invece un termine del tutto appropriato che è antigiudaismo, ma ahimè, non è branded e viene quindi beatamente snobbato.
Consideriamo adesso l’espressione Medio oriente, usata quotidianamente per Paesi come Israele, Palestina, Libano, Giordania… Visto che l’Estremo oriente incomincia con la Cina, questo Medio oriente assume dimensioni smisurate, dall’India al Mediterraneo! E il Vicino oriente? Dove è andato a finire? Defenestrato come il tigre? Temo di sì. Ma perché? Possiamo scegliere tra la pigra abitudine a un lessico approssimativo e motivazioni di ordine psicologico: Israele, Palestina, Libano, Giordania sono troppo turbolenti, troppo associati a un’idea di guerra e terrorismo permanenti perché la mentalità europocentrica tolleri l’idea di una loro vicinanza geografica. Quindi, niente Vicino oriente, al massimo Medio. Ed ecco che, quasi senza accorgercene, siamo già entrati nel campo della politica, del potere psicagogico della sua retorica: un linguaggio drogato e drogante, che da un lato si mutila delle parole più efficaci e particolari (spazzando via i corrispettivi concetti),  dall’altro inflaziona termini più generici (libertà, bene, democrazia) e tanto ne gonfia l’estensione (l’insieme delle realtà a cui sono applicabili), quanto, inversamente, ne riduce l’intensione (“il particolare e preciso contenuto, la qualità o proprietà individuale” [treccani.it]).
Un anelito verso l’universale, insomma, ma  - ahinoi – niente affatto nobile, perché  mira a scansare quel fastidioso ingombro chiamato realtà concreta.
 “Il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso”, ci ricorda Eco.
Com’è allora che queste arance siringate, asfittiche, che faticano a riempire mezzo bicchiere, riescono a dissetare molti? Come possono queste nuvole di gambero, diafane e dal sapore tenue, sfamare certuni come un arrosto?
Sospetto che il degrado culturale dell’ultimo quarto di secolo abbia reso molti stomaci piccoli e senza pretese. È arduo altrimenti spiegare perché mentre nel teatro della politica si evocano ancora i fantasmi esangui di liberalismo, comunismo, stalinismo, fascismo, quasi fossero  sostanze storiche di stretta attualità, nella categoria del diritto si include più facilmente la copertura satellitare del nostro cellulare che la possibilità di scegliere l’eutanasia, o con chi vogliamo sposarci.
Di continuo ci sono propinate enormi bistecche anabolizzate che alla prova della padella si riducono a monete gommose: l’anticomunismo di Berlusconi (“versione casereccia della teoria manichea dell’ asse del male che regge la politica della principale potenza mondiale” suggerisce Pietro Folena) s’impernia su un’attribuzione iperestesa – nonché anacronistica – di comunismo a soggetti politici in cui ormai è difficile trovare la qualità particolare che il termine comunismo richiede (intensione). Ma anzi, l’iperestensione del termine comunismo è tale da travalicare la categoria del politico: diventa comunismo tutto ciò che non appartiene all’ordine del Berlusconi-pensiero (potenzialmente, da Emergency a Renato Zero).
Come se il linguaggio non avesse già i suoi problemi!
Ad esempio, si trova in serio imbarazzo con le definizioni.
Le definizioni, si sa, son fatte di generi prossimi e differenze specifiche, che come uccellini e nidi devono prendere posto in un albero  delle specie e delle differenze, un albero che nemmeno Aristotele “riesce mai ad applicare in modo omogeneo e rigoroso” (U. Eco, ibidem).
Dopo il tigre, emblema di un pensiero depauperato dal linguaggio, occupiamoci del pipistrello di Esopo, che per il suo uso astuto dell’imbarazzo definitorio, è il perfetto totem dei parolai politici:

Un pipistrello, caduto per terra, fu afferrato da una donnola e, mentre stava per esser ucciso, la pregava di risparmiarlo. Quella dichiarò che non poteva lasciarlo andare, perché essa era per natura nemica di tutti gli uccelli. Allora il pipistrello spiegò che esso non era un uccello, ma un topo, e così fu lasciato andare. Più tardi cadde di nuovo, fu preso da un’altra donnola, e pregò anche quella di non divorarlo. Quella rispose che essa odiava tutti i topi, e il pipistrello, dichiarando che non era un topo bensì un uccello, se la cavò di nuovo. Ecco come fu che, con un cambiamento di nome, il pipistrello riuscì a sfuggire due volte alla morte.

Stiamo alla cronaca d’oggi. Il pipistrello italiano vuole papparsi una preda: partecipare in qualche modo alle manovre contro la Libia per trarne vantaggio, o quanto meno per limitare gli svantaggi derivanti della situazione di quel Paese. E ha necessità di tenersi buone due donnole: la NATO e l’opinione pubblica nazionale. Che può fare? Per prima cosa, prende tempo con entrambe e compie una serie di svolazzi sempre più stretti sulla preda:  l’Italia non parteciperà ad azioni militari contro la Libia. Anzi no: offrirà solo un contributo logistico. Anzi, no: invierà aerei, ma  non a scopo di bombardamento, solo per guastare i radar nemici. Anzi no: i caccia italiani useranno dei missili, ma solo su obiettivi militari. La donnola NATO, alla fine, è accontentata.
E la donnola dell’opinione pubblica? Beh, ora che l’Italia è in guerra, il pipistrello deve dare l’impressione che in realtà non ci è entrata e sostenere che ciò che sembra, in realtà non è. La soluzione più economica è formulare una definizione di guerra che non corrisponda ai termini dell’attuale coinvolgimento italiano nelle operazioni.
Così, il 27 aprile scorso, ci troviamo le seguenti dichiarazioni.
Il Ministro degli Esteri Frattini: “Esclusa l’azione di terra, o colpiamo con singole azioni aeree mirate i carri armati di Gheddafi o lasciamo consapevolmente uccidere civili a centinaia o forse a migliaia. Ecco perché non possiamo tirarci indietro”.
E parla di  “operazioni chirurgiche”, “senza provocare danni”.
Il Ministro della Difesa La Russa spiega che non si tratta di una svolta dell’impegno italiano nel Paese e che il termine bombardamenti  è “fuorviante”. Si tratta invece di “un adeguamento dell’Italia agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia del suo intervento all’interno della stessa strategia”.
L’Italia, quindi, non è in guerra perché “colpisce senza far danni” e soprattutto perché non impiega truppe di terra. In altre parole il nostro pipistrello dice a una donnola che non è un uccello, e all’altra che non è un topo.
Immagino non serva riportare le definizioni di guerra  e bombardamento proposte dall’enciclopedia Larousse. Ma vale la pena ripetere la definizione di bombardamento  dell’enciclopedia La Russa (e potrebbe essere, sia chiaro, l’enciclopedia D'Alema): adeguamento del contributo agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia dell’intervento all’interno della stessa strategia.
L’evanescenza di una dichiarazione del genere corrisponde a quella che Calvino, negli anni ‘60, chiamò l’antilingua, una lingua che tanto aborre la pestilenziale, oscena concretezza del reale da tradurne ogni oggetto, ogni azione, ogni manifestazione in categorizzazione astratta. Questo vecchio linguaggio burocratico e politichese, proprio della Prima Repubblica, è oggi eroso dalla neolingua della nuova politica, geneticamente mescolata al marketing e caratterizzata da moduli espressivi quali lo  sparagrossismo e lo slogan. Tuttavia non è strano che alla neolingua si preferisca ancora l’antilingua vecchia maniera nell’affrontare una faccenda spinosa come una guerra fuori dalla porta di casa, in cui c’è molto da perdere e quasi nulla da guadagnare, e sulla quale conviene investire poco ed esporsi ancora meno (la dura lex dei sondaggi!).
Ma mentre l’antilingua, per aggirare la concretezza, accumula neologismi e neoperifrasi in chiave astratta, la neolingua riduce il lessico e svuota di sostanza le parole che conserva.
È un procedimento già prefigurato da George Orwell in 1984, come ricorda opportunamente  Pietro Folena:
“Stiamo dando alla lingua la sua forma finale…Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole…centinaia ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso”. Sì, perché nel dominio totalitario di Oceania, la cultura e il pensiero critico sono il principale pericolo. “Il principale intento della neolingua consiste nel semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Lo “psicoreato” (e cioè il delitto di pensiero) diventerà impossibile perché non ci saranno più le parole per esprimerlo.

L’orrore per il procedimento argomentativo, per l’articolazione e l’estensione del discorso arrivano al punto paradossale di esporre a critiche di anacronismo la caleidoscopica retorica, non di rado  letteraria e umanistica, di Nichi Vendola: il suo bagaglio culturale, la proprietà di linguaggio e di organizzazione del discorso, la capacità di coagulare aspetti apparentemente scollegati della nostra realtà secondo una coerenza che diventa poco alla volta manifesta a chi ha la pazienza di ascoltarlo,  risultano obsoleti, fuori luogo, completamente esorbitanti i tempi degli sketch, dei battibecchi televisivi, delle balconate mussoliniane cui ormai si è adattata la quasi totalità dell’arco parlamentare.
La neolingua della politica preferisce infatti lo slogan, perché lo slogan consente di vendere un’idea senza la fatica di doverla argomentare. Lo slogan è un assioma che piace, che ti prende perché suggestiona, come uno spot ben riuscito, o un fotogramma lisergico di David Lynch. Non pretende argomenti, anzi ne ha orrore. “Sottratto ab aeterno a ogni razionale discussione” (R. Ronchi, Parlare in neolingua),  è il dionisiaco non temperato dall’apollineo.
Una volta i giornalisti distillavano, e se necessario forzavano, lunghe dichiarazioni in antilingua per estrarre dal cilindro dei titoli suggestivi. Ora gli basta riportare paro paro lo slogan sfornato direttamente dalla neolingua dei politici e pronto, ancora fumante, per essere consumato all’ora di cena davanti al televisore.


Riferimenti:





Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco

Italo Calvino, Fiabe italiane

Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società

Esopo, Favole

venerdì 29 aprile 2011

Cum grano salis: ancora sul Paradosso della democrazia

Non è certo uno scandalo della ragione riconoscere la cifra di antidemocrazia insita nella democrazia. L’assoluto non appartiene alla dimensione dell’agire umano, può esserne solo la bussola. Così l’assoluta democrazia è un modello ‘platonico’ che gli artigiani della libertà (inclusi i padri della Costituzione italiana) hanno guardato, ma guai a cercare di realizzarla in concreto, pena il castigo dell’opposto (Platone, cui una volta ha dichiarato di ispirarsi Gheddafi, si è spesso tradotto in plotone).
Vero è, invece, che ogni sistema funziona nella misura in cui prevede in sé un elemento la cui natura è esterna al sistema stesso, il che ne garantisce l’ identità e contribuisce per ciò stesso a fondarlo. L’ esempio esposto da Rcd nelle sue riflessioni sul pezzo di Asor Rosa (http://rangiolani.blogspot.com/2011/04/sui-paradossi-della-democrazia.html?zx=41af10d99b41e699) è emblematico: il divieto costituzionale di rifondare il Partito Fascista  di fatto si estende a qualunque movimento politico che ne ricalchi l’ideologia. Esiste dunque un reato di opinione e associazione, per quanto circostanziato e storicamente ‘giustificato’.
Potremmo anche domandarci quanto sia democratico impedire a movimenti religiosi satanisti di aprire in Italia scuole paritarie, o di ricevere il cinque per mille come la Chiesa Cattolica o quella Valdese.
Negare che esista una cifra di antidemocrazia sarebbe pura demagogia, o nel migliore dei casi, sintomo di pruderie ideologica.
Occorre invece riconoscere senza timore l’esistenza di questa componente estranea, ammetterne la paradossale necessità,  e quindi saperla valorizzare. Allora, cum grano salis, cioè con un briciolo di discernimento, ci si porrà il problema di come maneggiarla, dosarla, affinché, come scrive Rcd, sia una medicina , e non un veleno che invade in modo sotterraneo e quasi insensibile gli organi del corpo, cioè le varie compagini dello Stato, e non ultima la mentalità della gente (è ciò che accade ora in Italia).
Parliamoci chiaro: se all’interno dell’organismo democratico qualcuno ne alimenta la cifra di antidemocrazia oltre i livelli fisiologici e la usa per fini antidemocratici, trasformandola quindi in veleno, perché altri non dovrebbero  usarla a loro volta come contravveleno? A far la differenza, allora, non è solo la dose, come sosteneva Paracelso, ma anche l’intento.
Certo, quando si maneggiano farmaci e veleni occorre oculatezza, la consapevolezza di ciò che si sta usando e del perché si è scelto di usarlo: cum grano salis.
Questo, il principio d’azione.
Facciamo un passo avanti, adesso. Asor Rosa, a fronte di una democrazia che 
si annulla da sé invece che per una brutale spinta esterna”,
 vede come soluzione:
una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale “stato d’emergenza” […] Restituisce l’Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale. Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole”. 
Ma Asor Rosa parla anche di un sostegno di polizia e carabinieri a questa iniziativa, non ulteriormente spiegata.

Ed ecco che Rcd si chiede:
siamo davvero in una situazione così grave per cui si ha la necessità di una soluzione così altrettanto grave?

E ancora:
quanto profondo e incisivo deve essere l’intervento, ovvero, per tornare alla metafora omeopatica, quanto veleno possiamo iniettare senza rischiare di ammazzare la nostra democrazia? E chi dovrebbe fare il medico?

Che cosa intendiamo per situazione grave? E per soluzione grave?
Cominciamo dalla situazione: le opposizioni parlano di ‘emergenza democratica’. Sarebbe tutto molto più facile se fosse così, perché significherebbe che abbiamo davanti una minaccia palese per la maggioranza della gente, qualcosa di ben identificabile, perché nettamente sganciato dal sistema democratico. Ma non è così, non c’è emergenza democratica, ma piuttosto sommergenza antidemocratica: il sommergibile dell’autoritarismo è acquattato sotto le onde del sistema democratico e, invisibile o quasi, lancia i suoi siluri, affondando le navi una dopo l’altra. In   questo ultimo decennio ci siamo assuefatti  alle forzature del linguaggio, della logica, dell’etica, persino del buongusto,  per il tornaconto di pochi (o di molti, anche di noi stessi in fondo) e ritengo che non dobbiamo compiere peccato di ignavia: siamo responsabili anche della nostra non-azione che, ci ricorda Gramsci, è un’aberrante forma di azione. Di fronte a tante forzature, non dovremmo allora escludere l’eventualità di forzare anche le regole della democrazia. Tanto le vediamo sputtanate ogni giorno, ora con mano di velluto, ora con sguaiata evidenza: pensiamo al Ministro Alfano che, esasperato dalle resistenze alla riforma della giustizia, invoca come soluzione istituzionale… la gente in piazza.

Vediamo ora la soluzione:  l’ipotesi di golpe paventata da Rcd è qualcosa che va oltre la mia personale idea di forzatura delle regole, ma il coinvolgimento di polizia e carabinieri  auspicato da Asor Rosa ne è forse stretto parente, a meno che queste forze dell’ordine non debbano fungere semplicemente da protezione delle figure istituzionali responsabili dell’iniziativa, e quindi da deterrente contro eventuali aggressioni.
Giustamente Rcd vede un vero e proprio golpe con preoccupazione e infinite riserve: difficilmente è privo di disordini pubblici, ed ha come ovvia conseguenza  l’interruzione, o l’intermittenza, del normale circuito democratico; è efficace quanto rischioso, se non devastante, come può esserlo un antibiotico, per restare nella metafora della medicina.
Che esso possa incarnarsi nella rispettabile figura del Presidente della Repubblica, o di un pugno di senatori a vita, cambia poco: coinvolgerebbe comunque forze militari e componenti dell’esercito. Siamo appunto, oltre le regole: così si vince il nodo di Gordio tagliandolo con la spada, piuttosto che dipanandolo. O se vogliamo, è la soluzione del paradosso di Russell:

« In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e soli gli uomini del villaggio che non si radono da soli. Il barbiere rade se stesso? »

La soluzione è che il barbiere si fa sbarbare dal barbiere di un altro villaggio. Immaginiamo ora che il villaggio sia il sistema democratico… Potrebbe anche andarmi bene il golpe, se lo sapessi gestito da probi viri. Dovrebbero essere dei barbieri capaci di radere senza sgozzare, e magari abili nel fare salutari salassi.
Come dicevo all’inizio, ogni sistema funziona nella misura in cui prevede in sé un elemento la cui natura è esterna al sistema stesso. Ma non è necessario, non sempre almeno, che questo elemento si trovi esso stesso al di fuori del sistema.

Quando Asor Rosa dice che “la democrazia si salva, anche forzandone le regole”ci dà già una risposta. Forzarle non significa svellerle, ma spingerle a un potenziale commisurato a quello delle forze che agiscono per sovvertirle.
In che cosa potrebbe tradursi, concretamente, questa forzatura? Ammetto di non avere conoscenze adeguate, in campo di diritto e costituzione, per rispondere. Lo scenario che mi limito a immaginare/desiderare con un libero volo fantapolitico è una presa di posizione del Capo dello Stato, che a un certo punto prende atto delle non più sussistenti condizioni di legalità e diritto garantite dalla Costituzione, tra cui la compromissione degli equilibri e della indipendenza dei poteri. Ne consegue lo scioglimento delle camere e l’istituzione di un’assemblea costituente che rimarrà in funzione finché non saranno (ri)stabilite tutte le norme e i provvedimenti necessari a impedire analoghe future derive della democrazia. Tra questi provvedimenti, si potrebbe pensare anche a istituire un organismo in qualche misura erede dell’Alta Corte di Giustizia, per giudicare  i crimini contro lo Stato.
Solo a quel punto potranno essere indette nuove elezioni.
Ovviamente è un’ipotesi alquanto improbabile, fantapolitica appunto. Ma se devo pensare a una forzatura, non mi viene in mente niente di meglio.

La democrazia, come il diritto, opera virtuosamente fintanto che non perde il senso del proprio agire: e questo senso è la tutela e il bene  del consorzio degli uomini, non disgiunto dalla comprensione dell’umano, con tutte le sue fragilità e insicurezze.  A questo solo deve guardare la democrazia, e in funzione di ciò essa deve sapersi mutare, al punto, se è necessario, di lambire il suo opposto. E se anche arrivasse a quel punto, non sarebbe questa mutazione – chiamiamola pure crisi apicale - a farle perdere identità o prestigio.  La democrazia si smarrisce quando smarrisce  l’umanità di cui è tutrice, anche se formalmente rimane integerrima:  summum ius, summa iniuria.
C’è un aneddoto apocrifo della vita di Gesù, che forse vale più di altri mille discorsi e lo scelgo quindi come epigrafe di queste mie riflessioni: i Farisei  accusano Gesù di violare la legge mosaica perché stava compiendo guarigioni di sabato. Quello stesso giorno Gesù si imbatte in un uomo che sta lavorando e gli dice: “O uomo, se sai ciò che stai facendo, tu sei benedetto, ma se non lo sai sei maledetto e trasgressore della Legge.”