mercoledì 4 maggio 2011

La tigre e il pipistrello: riflessioni su linguaggio e pensiero nella politica di oggi


 
Noi abbiamo pochi nomi e poche definizioni per una infinità di cose singole. Dunque il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso. Il dramma è che l’uomo parla sempre in generale mentre le cose sono singolari. Il linguaggio nomina appannando l’insopprimibile evidenza dell’individuale esistente.

Umberto Eco, Sull’essere, in Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997, p.13

È possibile ignorare, sottovalutare, dimenticare l’ineluttabile inadeguatezza del linguaggio?
Sì, perché siamo uomini, portati all’errore, e spesso viziati da troppa sicurezza.
Se oggi volessi indignarmi con qualcuno, lo farei con chi usa con dolo il gap segnalato da Umberto Eco, facendo credere che il vuoto dell’universale, lo slogan, corrisponda all’articolata singolarità del reale. Mi riferisco all’attuale neolingua dei media, soprattutto alla sua declinazione politica, che allarga questo gap impoverendo il linguaggio e limitando ulteriormente le possibilità del discorso di avvicinarsi al reale.

Ma attenzione, è facile additare il vizio linguistico in politici, giornalisti, pubblicitari. Difficile ammettere che il diavolo è dentro la cattedrale, che la stessa inclinazione si annida in noi stessi, nell’edicolante sotto casa, nella parrucchiera, nei pendolari compagni di viaggio con cui commentiamo la politica, la cronaca, lo sport.  Se volessimo fare dell’intellettualismo etico, potremmo dire che, almeno, i professionisti della comunicazione sono consapevoli del fenomeno e lo sfruttano, mentre la gente comune no: ne è solo vittima, sia perché subisce il raggiro, sia perché a sua volta lo esercita, questa volta inconsciamente, su se stessa e sugli altri. 
Siamo così sicuri di avere piena padronanza del nostro pensiero e che il linguaggio sia un docile strumento al servizio delle idee?
Prendiamo atto che la realtà è ben diversa: noi pensiamo molte cose attraverso il linguaggio, anzi fondandole sul linguaggio. Fintanto che pensiamo attraverso il linguaggio, i suoi limiti diventano i limiti del pensiero, e se il linguaggio si impoverisce, ciò ha ricadute immediate sul pensiero. È un punto tanto fondamentale che, prima di esporre le mie considerazioni sul linguaggio usato oggi nei media, provo a illustrare il meccanismo  con un esempio semplice e neutro.
Le fiabe utilizzano allo sfinimento pochi schemi narrativi, in particolare lo schema triadico: tre figlie, tre sorelle, tre prove, tre indovinelli, tre desideri ecc. I componenti delle triadi sono caratterizzati da una serrata corrispondenza dei loro elementi, in un rapporto, diciamo, di uno a uno. Per farsene un’idea basta leggersi a caso qualche storia delle Fiabe italiane di Italo Calvino. In questa raccolta, però, c’è una fiaba, La vedova e il brigante, in cui la corrispondenza salta:

La vedova... si finse ammalata e disse al figlio: “Se non ho un po' di latte di leonessa, muoio.”
(Il figlio) andò nel bosco e trovò il leone.
“Compare” gli disse il leone, cosa andate cercando da queste parti?”
“Compare leone,” rispose lui “io sono venuto per un po' di latte della comare leonessa.”
[…]
Il figlio andò per il latte dell'orsa. Quando arrivò dall'orso, l'orso disse: “Compare, cosa sei venuto a fare qui?”
“Compare orso,” rispose lui “sono venuto da voi perché ho la madre malata che vuole un po’ di latte di comare orsa per guarire.”
[...]
Il figlio partì... per cercare il latte della tigre. Quando lo vide arrivare la tigre gli disse: “Compare, cosa siete venuto a fare?”
“Comare tigre, sono venuto perché ho la madre malata e vuole un po’ del vostro latte.”

Che fine ha fatto il maschio della tigre? È sparito per un motivo linguistico: ove in italiano esistono le coppie leone/leonessa e orso/orsa, la tigre ha il solo genere femminile. Questo limite della lingua finisce con l’investire l’universo concettuale della fiaba, da cui il povero maschio della tigre è escluso.
La sua dipartita in una storiella è, in fondo, peccato veniale, ma  assume proporzioni nazional-culturali quando il povero  tigre comincia a essere defenestrato dai programmi televisivi, dalla politica, dai telegiornali e  - come non bastasse - si cerca di surrogarlo con ghepardi, gatti, o peggio ancora liocorni. Eppure in molti casi la soluzione è assolutamente a portata del linguaggio, solo che la rifiutiamo, scegliendo di oltraggiare il pensiero.
Prendiamo il termine antisemitismo: inteso come ostilità verso gli ebrei, può ancora funzionare – per quanto del tutto impreciso – fintanto che lo attribuiamo, ad esempio,  a europei e americani, non certo quando si tratta del sentimento di odio etnico-religioso da parte di popoli di fede islamica, semiti tanto quanto gli ebrei! Non risolve il problema la parola antisionismo: ha un accezione politica che ci allontana dal campo semantico di antisemitismo. Esiste  invece un termine del tutto appropriato che è antigiudaismo, ma ahimè, non è branded e viene quindi beatamente snobbato.
Consideriamo adesso l’espressione Medio oriente, usata quotidianamente per Paesi come Israele, Palestina, Libano, Giordania… Visto che l’Estremo oriente incomincia con la Cina, questo Medio oriente assume dimensioni smisurate, dall’India al Mediterraneo! E il Vicino oriente? Dove è andato a finire? Defenestrato come il tigre? Temo di sì. Ma perché? Possiamo scegliere tra la pigra abitudine a un lessico approssimativo e motivazioni di ordine psicologico: Israele, Palestina, Libano, Giordania sono troppo turbolenti, troppo associati a un’idea di guerra e terrorismo permanenti perché la mentalità europocentrica tolleri l’idea di una loro vicinanza geografica. Quindi, niente Vicino oriente, al massimo Medio. Ed ecco che, quasi senza accorgercene, siamo già entrati nel campo della politica, del potere psicagogico della sua retorica: un linguaggio drogato e drogante, che da un lato si mutila delle parole più efficaci e particolari (spazzando via i corrispettivi concetti),  dall’altro inflaziona termini più generici (libertà, bene, democrazia) e tanto ne gonfia l’estensione (l’insieme delle realtà a cui sono applicabili), quanto, inversamente, ne riduce l’intensione (“il particolare e preciso contenuto, la qualità o proprietà individuale” [treccani.it]).
Un anelito verso l’universale, insomma, ma  - ahinoi – niente affatto nobile, perché  mira a scansare quel fastidioso ingombro chiamato realtà concreta.
 “Il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso”, ci ricorda Eco.
Com’è allora che queste arance siringate, asfittiche, che faticano a riempire mezzo bicchiere, riescono a dissetare molti? Come possono queste nuvole di gambero, diafane e dal sapore tenue, sfamare certuni come un arrosto?
Sospetto che il degrado culturale dell’ultimo quarto di secolo abbia reso molti stomaci piccoli e senza pretese. È arduo altrimenti spiegare perché mentre nel teatro della politica si evocano ancora i fantasmi esangui di liberalismo, comunismo, stalinismo, fascismo, quasi fossero  sostanze storiche di stretta attualità, nella categoria del diritto si include più facilmente la copertura satellitare del nostro cellulare che la possibilità di scegliere l’eutanasia, o con chi vogliamo sposarci.
Di continuo ci sono propinate enormi bistecche anabolizzate che alla prova della padella si riducono a monete gommose: l’anticomunismo di Berlusconi (“versione casereccia della teoria manichea dell’ asse del male che regge la politica della principale potenza mondiale” suggerisce Pietro Folena) s’impernia su un’attribuzione iperestesa – nonché anacronistica – di comunismo a soggetti politici in cui ormai è difficile trovare la qualità particolare che il termine comunismo richiede (intensione). Ma anzi, l’iperestensione del termine comunismo è tale da travalicare la categoria del politico: diventa comunismo tutto ciò che non appartiene all’ordine del Berlusconi-pensiero (potenzialmente, da Emergency a Renato Zero).
Come se il linguaggio non avesse già i suoi problemi!
Ad esempio, si trova in serio imbarazzo con le definizioni.
Le definizioni, si sa, son fatte di generi prossimi e differenze specifiche, che come uccellini e nidi devono prendere posto in un albero  delle specie e delle differenze, un albero che nemmeno Aristotele “riesce mai ad applicare in modo omogeneo e rigoroso” (U. Eco, ibidem).
Dopo il tigre, emblema di un pensiero depauperato dal linguaggio, occupiamoci del pipistrello di Esopo, che per il suo uso astuto dell’imbarazzo definitorio, è il perfetto totem dei parolai politici:

Un pipistrello, caduto per terra, fu afferrato da una donnola e, mentre stava per esser ucciso, la pregava di risparmiarlo. Quella dichiarò che non poteva lasciarlo andare, perché essa era per natura nemica di tutti gli uccelli. Allora il pipistrello spiegò che esso non era un uccello, ma un topo, e così fu lasciato andare. Più tardi cadde di nuovo, fu preso da un’altra donnola, e pregò anche quella di non divorarlo. Quella rispose che essa odiava tutti i topi, e il pipistrello, dichiarando che non era un topo bensì un uccello, se la cavò di nuovo. Ecco come fu che, con un cambiamento di nome, il pipistrello riuscì a sfuggire due volte alla morte.

Stiamo alla cronaca d’oggi. Il pipistrello italiano vuole papparsi una preda: partecipare in qualche modo alle manovre contro la Libia per trarne vantaggio, o quanto meno per limitare gli svantaggi derivanti della situazione di quel Paese. E ha necessità di tenersi buone due donnole: la NATO e l’opinione pubblica nazionale. Che può fare? Per prima cosa, prende tempo con entrambe e compie una serie di svolazzi sempre più stretti sulla preda:  l’Italia non parteciperà ad azioni militari contro la Libia. Anzi no: offrirà solo un contributo logistico. Anzi, no: invierà aerei, ma  non a scopo di bombardamento, solo per guastare i radar nemici. Anzi no: i caccia italiani useranno dei missili, ma solo su obiettivi militari. La donnola NATO, alla fine, è accontentata.
E la donnola dell’opinione pubblica? Beh, ora che l’Italia è in guerra, il pipistrello deve dare l’impressione che in realtà non ci è entrata e sostenere che ciò che sembra, in realtà non è. La soluzione più economica è formulare una definizione di guerra che non corrisponda ai termini dell’attuale coinvolgimento italiano nelle operazioni.
Così, il 27 aprile scorso, ci troviamo le seguenti dichiarazioni.
Il Ministro degli Esteri Frattini: “Esclusa l’azione di terra, o colpiamo con singole azioni aeree mirate i carri armati di Gheddafi o lasciamo consapevolmente uccidere civili a centinaia o forse a migliaia. Ecco perché non possiamo tirarci indietro”.
E parla di  “operazioni chirurgiche”, “senza provocare danni”.
Il Ministro della Difesa La Russa spiega che non si tratta di una svolta dell’impegno italiano nel Paese e che il termine bombardamenti  è “fuorviante”. Si tratta invece di “un adeguamento dell’Italia agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia del suo intervento all’interno della stessa strategia”.
L’Italia, quindi, non è in guerra perché “colpisce senza far danni” e soprattutto perché non impiega truppe di terra. In altre parole il nostro pipistrello dice a una donnola che non è un uccello, e all’altra che non è un topo.
Immagino non serva riportare le definizioni di guerra  e bombardamento proposte dall’enciclopedia Larousse. Ma vale la pena ripetere la definizione di bombardamento  dell’enciclopedia La Russa (e potrebbe essere, sia chiaro, l’enciclopedia D'Alema): adeguamento del contributo agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia dell’intervento all’interno della stessa strategia.
L’evanescenza di una dichiarazione del genere corrisponde a quella che Calvino, negli anni ‘60, chiamò l’antilingua, una lingua che tanto aborre la pestilenziale, oscena concretezza del reale da tradurne ogni oggetto, ogni azione, ogni manifestazione in categorizzazione astratta. Questo vecchio linguaggio burocratico e politichese, proprio della Prima Repubblica, è oggi eroso dalla neolingua della nuova politica, geneticamente mescolata al marketing e caratterizzata da moduli espressivi quali lo  sparagrossismo e lo slogan. Tuttavia non è strano che alla neolingua si preferisca ancora l’antilingua vecchia maniera nell’affrontare una faccenda spinosa come una guerra fuori dalla porta di casa, in cui c’è molto da perdere e quasi nulla da guadagnare, e sulla quale conviene investire poco ed esporsi ancora meno (la dura lex dei sondaggi!).
Ma mentre l’antilingua, per aggirare la concretezza, accumula neologismi e neoperifrasi in chiave astratta, la neolingua riduce il lessico e svuota di sostanza le parole che conserva.
È un procedimento già prefigurato da George Orwell in 1984, come ricorda opportunamente  Pietro Folena:
“Stiamo dando alla lingua la sua forma finale…Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole…centinaia ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso”. Sì, perché nel dominio totalitario di Oceania, la cultura e il pensiero critico sono il principale pericolo. “Il principale intento della neolingua consiste nel semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Lo “psicoreato” (e cioè il delitto di pensiero) diventerà impossibile perché non ci saranno più le parole per esprimerlo.

L’orrore per il procedimento argomentativo, per l’articolazione e l’estensione del discorso arrivano al punto paradossale di esporre a critiche di anacronismo la caleidoscopica retorica, non di rado  letteraria e umanistica, di Nichi Vendola: il suo bagaglio culturale, la proprietà di linguaggio e di organizzazione del discorso, la capacità di coagulare aspetti apparentemente scollegati della nostra realtà secondo una coerenza che diventa poco alla volta manifesta a chi ha la pazienza di ascoltarlo,  risultano obsoleti, fuori luogo, completamente esorbitanti i tempi degli sketch, dei battibecchi televisivi, delle balconate mussoliniane cui ormai si è adattata la quasi totalità dell’arco parlamentare.
La neolingua della politica preferisce infatti lo slogan, perché lo slogan consente di vendere un’idea senza la fatica di doverla argomentare. Lo slogan è un assioma che piace, che ti prende perché suggestiona, come uno spot ben riuscito, o un fotogramma lisergico di David Lynch. Non pretende argomenti, anzi ne ha orrore. “Sottratto ab aeterno a ogni razionale discussione” (R. Ronchi, Parlare in neolingua),  è il dionisiaco non temperato dall’apollineo.
Una volta i giornalisti distillavano, e se necessario forzavano, lunghe dichiarazioni in antilingua per estrarre dal cilindro dei titoli suggestivi. Ora gli basta riportare paro paro lo slogan sfornato direttamente dalla neolingua dei politici e pronto, ancora fumante, per essere consumato all’ora di cena davanti al televisore.


Riferimenti:





Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco

Italo Calvino, Fiabe italiane

Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società

Esopo, Favole

4 commenti:

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  2. Riflessione a “La tigre e il pipistrello: riflessioni su linguaggio e pensiero nella politica di oggi” di Antonio Florita


    Quanti spunti di riflessione, quanti rivoli (solo apparentemente) secondari si potrebbero percorrere semplicemente, non deviando, ma estendendo il discorso principale. L’effetto svuotamento e/o slittamento (a un significante corrisponde un significato diverso dall’originale oppure un non-significato) che la neolingua politica (ma non solo politica) sta operando sulla capacità di eleaborare pensieri (intendendoli complessi) produce effetti inaspettati, bizzarri, preoccupanti, devastanti. Ma è anche l’ovvio risultato di una società pigra e velocizzata, dove velocità e pigrizia non sono qualità contrastanti bensì le due facce della stessa medaglia: la semplificazione. E la televisione in questo è maestra educatrice (come dici tu, il Vendola non immediatamente televisivo, che richiede concentrazione e pazienza): rapidità e incisività, quindi concetti semplificati, banalizzati, svuotati e dunque riciclabili (come campionamenti musicali) e double-face (smentibili e capovolgibili). E’ l’era di quello che io chiamo il “pensiero facile”, che propone la soluzione rapida, quella meno faticosa, su misura per una società pigra (ma afflitta da un horror vacui che paradossalmente la costringe a un frenetico vuoto movimento, perché conta apparire in movimento, non fare qualcosa). Quindi: no al pensiero complesso (tacciato per sega mentale o bizantinismo); no alla soluzione giusta se non è anche rapida, e men che meno se dovesse essere addirittura faticosa. Un no che piace alla gente comune, che non vuole impicci; ma che piace e che sfrutta il politico (la cui missione di mediatore tra il giusto e il necessario, tra il complesso e il semplificato, insomma la sua capacità di sintesi – che non è semplificazione - è ormai dimenticata) che non è capace, né ha voglia, né interesse a formulare soluzioni che non trovano un immediato successo di (e mi si passi il termine) pubblico-elettori. Il tutto in un tripudio di ostentati facili ottimismi, entusiasmi e menzogne a cuore aperto. A cascata, si dovebbe parlare della mancanza di lungimiranza politica, dell’uso dell’emotività nella politica e dell’apparenza come virtù...
    Diceva Piero Gobetti nel 1923: il Fascismo in Italia è (...) un’indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo. (…) Una nazione che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, è una nazione che vale poco.
    Per fortuna che c’è una pubblicità che ci ricorda che «noi valiamo».

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  3. Trovo che in questo post siano mescolate molte suggestioni che, come scrive Rcd, sono tanti rivoli diversi che si dipartono da un nucleo principale.
    Da filosofa, distinguo grandi temi storici della filosofia: il problema dell'universale, il rapporto significante/significato, l'arbitrarietà (o il contrario) del loro rapporto, ecc Quello che trovo più interessante, che qui si accenna, è quello della base "ideologica" del linguaggio. Esiste una spiegazione socio-politica, diciamo così, di infinite determinazioni verbali. Tigre non ha il genere maschile. Pensiamo ai rapporti di potere patriarcali sedimentati nel linguaggio: manca il genere femminile di tutte le professioni "alte" (ministro, avvocato, architetto, ecc), addirittura di alcune professioni quando usiamo il femminile l'accezione è inferiore ("maestra") quando usiamo il maschile il livello è superiore ("Maestro", che si usa per guru e personalità di grande levatura spirituale). E' chiaro che la storia, maschile per millenni, ha registrato nel linguaggio un rapporto di subordinazione reale. Questo è solo un esempio. Trovo di grande interesse la possibilità - non so, se, e da chi eventualmente realizzata - di studiare la storia dei costumi, del pensiero, delle prassi sociali e comunitarie nonché politiche, attraverso la lente del linguaggio. Che non è mai casuale, come hai rilevato. Il potere e il linguaggio sono intimamente collegati - il che forse dimostra e alcontempo specifica quanto preannunciato da Foucault sul rapporto potere-sapere, sapere-potere.
    Ho letto con piacere il post, ma forse sarebbe stato più efficace isolare un tema e trattare, sia pure senza rigidità argomentativa ma per suggestioni, quello. Nel tuo post si accumulano troppi spunti, accomunati dal tema "linguaggio", il che non facilita la focalizzazione.
    Saluti,
    D.

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  4. Il senso dell'intervento era fare una critica sul linguaggio della politica contemporanea dandole un minimo di fondamento teorico (quello che i limiti delle mie conoscenze mi permettono)e cercando di trovare appigli con realtà più concrete e non troppo concettose. Lungi da me tirare fuori pedantemente Gorgia o raffinatezze semiotiche che non sono alla mia portata.
    Mi rendo conto di aver messo molto in questo calderone celtico... Beh, magari qualcuno prenderà spunto per sviluppare un tema in particolare. ne sarei felice!

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